Letizia Battaglia e i suoi racconti muti

Ci sono tanti modi di raccontare storie. Immagini, sculture, poesia, pittura, fotografia. Tra questi e tanti altri non ce n’è uno più forte, uno che vince. Dipende dall’intensità con cui ciascuno viene usato. Ma nella fotografia c’è Letizia Battaglia e lei, invece, ha vinto. Ha vinto perché non ha solo fotografato. Ma ha scolpito, raccontato, catturato. Ha fatto poesia, musica, arte attraverso le immagini. Nelle sue fotografie sono racchiusi tutti quanti i modi di raccontare. Tutto il pathos che l’uomo ci mette nel creare cose vere, nell’aggraparsi alla realtà e graffiarne via gli strati superficiali, per restituirne il bello. Quel bello sublime, che attrae e spaventa. Anzi, spesso, terrorizza.

Fa paura, infatti, l’arte della Battaglia. Spaventa il modo in cui il mondo appare senza veli, in cui l’Italia è messa a nudo, in cui la stasi di un’immagine parla; anzi: grida.

Ci sono i morti ammazzati, nello spaccato di un tempo in cui la mafia era più viva e vera che mai. Il sangue scuro che nelle fotografie diventa un nero pesto. I capi chini sul petto, i corpi afflosciati, gli arti in posizioni disarmoniche. La fissità dei visi senza vita. Poi i ghigni stravolti dei sopravvissuti: la morte che, su di loro, si vede meglio in chi è morto per davvero. Lo scorcio dell’omicidio Mattarella; i bambini che giocano con le armi; i corpi riversi sui sofà; le macchine custodi di cadaveri dalla testa china, pendente sul petto.

Quel bello sublime, che attrae e spaventa. Anzi, spesso, terrorizza.

Poi lo spaccato di un’Italia che ricordiamo così come lei l’ha impressa. I bambini che gridano; le bambine e i loro occhi pieni; le donne anziane che piangono; i giochi di luce e di buio; le generazioni a confronto e quelle perse per sempre.

Ci sono cose che le parole non riescono a riassumere. Forse di parole per farlo bisogna ancora inventarne. E poi ci sono persone che hanno inventato altri modi di raccontarle, quelle cose. Un po’ come ha fatto Letizia Battaglia con la fotografia. Un obiettivo che sembra mirare fuori, al mondo esterno, il suo. Ma che per imprimerlo così bene, quel mondo, è un obiettivo che riprende anche da dentro. Nella sua arte ci sono le anime, non solo i corpi; c’è la morte ma c’è anche la vita; c’è il sangue e poi la felicità; ci sono le cose vere, anche se fanno male; ci sono gli sguardi e le lacrime di un mondo che a volte cambia e che intanto crolla. Ci sono le macerie rimaste, e le fondamenta dei palazzi che qualcun altro costruirà. C’è il passato, il presente, ma anche il futuro. Una narrazione muta che si perde in un linguaggio nuovo. Un modo di narrare che non ha bisogno di regole, impianti, impostazioni, leggi. Si fonda sulla corporeità del gesto del fotografare. Su una tensione nuova e del tutto priva di artifici, di retorica. Non ci sono perifrasi, non c’è un prologo o un epilogo. C’è solo il presente. Quello vero, crudo.

Nella sua narrazione, Letizia Battaglia racconta una storia. La sua, e quella di tutti. Una storia fatta di male e di bene; un racconto silente dei movimenti del tempo, di come il mondo avanza, e degli uomini che lo portano avanti, o indietro.


A cura di
Chiara Miscali e Giuseppina Murru

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