Paolo Nori, grande studioso e amante di letteratura russa, scrittore, traduttore e blogger, porta in scena a Licanìas il suo monologo Sanguina Ancora, titolo dell’omonimo libro in finale al Premio Campiello 2021. Si cerca la risposta alla domanda: Che senso ha, oggi, leggere Dostoevskij? E nel cercarla, questa risposta, Nori parte dal fatto che Dostoevskij ci ha detto, nelle cose che ha scritto, come siam fatti prima ancora che venissimo al mondo. C’è stato un principio, un’epifania: Paolo Nori legge Delitto e Castigo a quindici anni e rimane incantato da come Dostoevskij parli a lui, parli di lui.
A Volta Pagina ha parlato di letteratura, scrittura e di quella ferita che sanguina ancora.
Ha intitolato il libro Sanguina Ancora. Dostoevskij è una ferita aperta. Secondo lei è bene che tutti l’abbiano, questa ferita? Ovvero qualcosa che fa sanguinare, che fa vivere la vita e vedere il mondo in un certo modo? O è bene che prima o poi, questa ferita, si cicatrizzi?
Io, cosa è bene per gli altri, non lo so. Non ne ho idea. Ma, per me, io sono contento. A me piacciono le cose che mi fanno star male, non so perché. Non so se questa cosa valga per tutti. Però io, quando ho letto il mio primo romanzo russo, che era Delitto e castigo di Dostoevskij, avevo quindici anni, e in quel romanzo il protagonista si chiede: Ma io quanto valgo? Sono come un insetto o come Napoleone? Mi son fermato nella lettura, e mi son chiesto: E io? Io quanto valgo? Ho avuto l’impressione che quel libro lì, che era stato scritto 212 anni prima a 3000 chilometri di distanza, avesse aperto dentro di me una ferita, che non avrebbe smesso tanto presto di sanguinare. Sono passati 44 anni, e io sono contento che quella ferita sanguina ancora. Sono contento di non avere l’esatta percezione del mio valore. Se sapessi che valgo 32 mi fermerei lì, invece ho l’impressione di essere per strada verso qualcosa. Anche adesso, anche da vecchio.
Ha un modo di scrivere che definirei così particolare da essere magnetico, da far amare la letteratura russa anche a chi, di letteratura russa, non ha mai letto niente. È come entrare nei suoi pensieri e in ogni singola vita della quale parla. È un’impostazione studiata, esercitata, o un movimento stilistico al quale non fa caso, totalmente naturale?
È una cosa che è venuta col tempo. All’inizio non scrivevo così, nei primi due anni di stesura del libro sono andato verso una scrittura con una vocazione sonora. Sembra che scriva come parlo, però non è una cosa immediata, ci è voluto del tempo. E grazie per le cose che hai detto. Io, in questi ultimi anni soprattutto, racconto (anche in questo libro) delle mie passioni, e il tentativo è un po’ quello lì: parlare di una cosa che mi piace moltissimo. Che è un pezzo di me.
Il romanzo poi è un saggio che racconta una storia, che in fondo potrebbe essere il suo incontro con la vita di Dostoevskij. È quasi un nuovo genere in cui è centrale, quasi più di tutto, la potenza della letteratura. La letteratura che stravolge e parla chiaro. Che ha una potenza salvifica e destrutturante. Ecco, per lei, in che misura la letteratura deve assumere l’una o l’altra connotazione?
Non è che debba farlo, lo fa. Io, fin da quando ero piccolo, la cosa che mi piace di più, a me, è leggere dei romanzi. Quando ho cominciato a pubblicare, nel ‘99, mio babbo faceva il capo cantiere, lavorava nell’edilizia, e lui di libri non ne leggeva, e quando sono usciti i miei primi due libri, uno dopo l‘altro, sono andati abbastanza bene, mio babbo si è sentito in dovere di scusarsi con me perchè non li leggeva. E io gli ho detto: Babbo io non son mai venuto a vedere le case che costruisci. Non credo che il mio mestiere sia più importante del mestiere di mio babbo, no. Anche io in un certo senso costruisco le case. Case diverse, dove la gente va a stare. Però per me è così. L’edilizia è importante, necessaria, potente. Ma anche la letteratura. Per me, e per quelli come me che leggono i libri.
Per me la cosa difficile, quando avevo la vostra età, è stata capire quello che mi piaceva. E difficilissimo è stato avere il coraggio di immaginare che questa mia passione diventasse un mestiere. Son dovuto arrivare a un grado di disperazione talmente alto che mi son detto: Voglio provare a fare questa cosa qui. E se la letteratura fosse stata la musica jazz o la pittura, l’edilizia, l’architettura, non so, non credo che sarei migliore o peggiore di quello che sono ora. La possibilità di lavorare con le cose che più ci piacciono, ecco questa è una cosa della quale sono contento. Ho voluto provare a verificare questa possibilità, e mi sembra che ci sia. Si può.
La ferita lasciata da Dostoevskij sanguina ancora. Ma altri autori le hanno fatto questo stesso effetto?
Tantissimi. L’incontro con Dostoevskij è stato un caso. Ma con Tolstoj mi è successa la stessa cosa, con Puskin, Anna Achmatova, Gogol’. O quantomeno una cosa simile. Ci son delle cose centrali della mia vita, dei sentimenti miei che io leggo attraverso di loro. La letteratura è uno strumento per capirmi e per capire il mondo. Esattamente come è successo con Delitto e castigo, per la prima volta 44 anni fa.
A cura di
Chiara Miscali